I fratelli di Auschwitz

“La cosa più difficile fu venire sfrattati da casa nostra”

fratelli

Avete presente quando entrate in libreria senza dover comprare “per forza” un libro, ma potete concedervi il lusso di girare liberamente tra gli scaffali? è così che ho trovato per caso nello scaffale di una libreria a me cara questo libro, che mi ha attirato subito non solo per il titolo, ma anche e soprattutto per la bellissima e icastica copertina.

Chiaramente si tratta di un libro sulla follia dei campi di sterminio nazisti. Nel dettaglio, su Auschwitz. Ancora più nel dettaglio, sulla vita (se così possiamo definirla) di due fratelli, Dov e Yitzak, che vivono tranquilli in un paesino arroccato sui Carpazi in Ungheria, lontani dagli orrori della guerra. Fino ad un giorno, un qualsiasi giorno di festa del 1944, in cui tutto cambia e la Storia fa irruzione nelle loro tranquille vite da bambini: “Dobbiamo fare i bagagli. Lasciamo il paese“. Senza se e senza ma.

Da allora, il viaggio nell’Inferno. Un viaggio che ha mai concesso un ritorno, un riavvolgere il nastro a prima della tragedia. Un viaggio da cui non si può tornare realmente. Neppure se si ha Fortuna di tornare a casa con il corpo.

Per questo motivo SOLO sei decenni dopo, nei loro salotti confortevoli (troppo, smaccatamente, fastidiosamente confortevoli!) delle loro case in Israele, Dov e Yitzak rompono finalmente il silenzio e raccontano quello che hanno vissuto.

Malka Adler (l’autrice del libro) ne ha faticosamente raccolto e poi rielaborato le dolorose memorie. Per consegnarle alla Storia. Per dire un ennesimo: “MAI più!”.

Il racconto è crudo ed essenziale, angosciante nella suo essere diretto e non romanzato. I ricordi sono lucidi e nitidi, come se quelle vicende i due protagonisti le avessero vissute qualche giorno prima. Evidentemente simili tragedie si scolpiscono a lettere di marmo nel libro della memoria, in un modo che noi non possiamo neppure lontanamente immaginare.

Sessanta brevi capitoli di orrore puro: fisico, morale, psicologico, totale. Una struttura binaria, che alterna la narrazione dei due fratelli, parallela in tempistica e ambientazione, e ci conduce per mano – spesso recalcitranti – in un lunghissimo viaggio (che spesso alterna ossessivamente passato esecrabile e presente disagiato) che va da quel maledetto 1944 in Ungheria al 2003 in Polonia, un lunedì 23 giugno sulla maledetta rampa di Auschwitz – Birkenau. Nella parte finale, un lungo capitolo (il 54) è “lasciato” alla narrazione di Sarah, la loro sorella, e le pagine si riempiono di un altro tipo di orrore (che dovete leggere da soli).

La parte più bella del libro è a mio avviso proprio qui: “Avevo trascorso un anno nei campi nazisti. Da allora non mi fido più delle persone, indipendentemente da quello che dicono. (…). Non ho mai parlato dei campi nazisti ai miei due figli. Non so perché in tutti questi anni non gli ho detto nulla. Ultimamente, però, i miei nipoti vogliono sapere. (…). Quando ero nei campi, io e le altre donne invocavamo vendetta! La vendetta sarà mettere al mondo bambini ebrei. Grazie a Dio li ho avuti, e questa è stata la mia vendetta“.

Particolare anche lo stile espressivo: la scelta narrativa dell’autrice va sul discorso diretto, che però è presentato come una sorta di discorso indiretto libero. Le battute, riportate in modo diretto (dice, grida, risponde…) si incastonano nel narrato, senza le virgolette ad interrompere il flusso del ricordo. Questo rende il fluire della storia ancora più veloce, immediato e soprattutto violento. Come uno schiaffo in viso.

Meditiamo, gente, meditiamo. Perché “QUESTO è STATO” (cit. Piera Sonnino).