Il virus si deve battere

LA LETTURA DI UN INCUBO

bonaccini

Due mesi e mezzo di follia e di terrore raccontati passo passo dal Presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Dal pressing sul governo per chiudere le scuole già dal 24 febbraio, come in Lombardia e Veneto, agli ospedali al culmine delle loro possibilità, alle morti senza sepoltura, al contagio degli assessori Donini e Lori appena insediati nella nuova giunta, all’incarico a Sergio Venturi come commissario straordinario dell’emergenza. E poi la scelta più difficile per Bonaccini, quella del 16 marzo, 10 minuti dopo la mezzanotte: la chiusura di Medicina. Zona rossa, esattamente come Codogno, come Vo’ Euganeo. Confessa il presidente: «La chiusura di Medicina è stato uno dei provvedimenti più sofferti che io abbia preso nei cinque anni da presidente della Regione. Ma non avevamo altra scelta».

Per non dimenticare quello che è stato per noi tutti triste e agghiacciante attualità e che diventerà ben presto Storia.

Lo stile del libro sa un po’ di “Res gestae” augustee per il tono autocelebrativo dell'”ho detto, ho fatto, ho firmato, ho compiuto”, che tuttavia è comprensibile, vista la natura assolutamente diaristica del testo, che non si propone affatto di essere libro di storia e men che mai romanzo storico.

La scrittura di Bonaccini, invece, è piana e chiara, arricchita da riflessioni che toccano nel profondo (una per tutte: “Il lavoro: mai come ora che manca ne percepiamo la dignità, il valore sociale, la sicurezza che offre solo quando c’è”), con affermazioni su aspetti di questa tragedia che hanno dell’immane. Penso ad esempio alla seguente affermazione: “Con la ripresa dei funerali riapriranno i cimiteri: per molti sarà finalmente possibile piangere i propri cari cui non si è neppure potuto porgere l’estremo saluto in questi mesi terribili e inumani”. Si tratta di qualcosa che non dimenticheremo, anche perché si è trattato di qualcosa che non avremmo mai immaginato di vivere, se non leggendolo sui libri di storia in cui si parla della peste di Firenze del Trecento o nelle parole angoscianti di Manzoni che ci descrive la morte in un lazzaretto o nei versi di Lucrezio e nella prosa secca di Tucidide, che ci raccontano la peste di Atene del 430 a.C. Eppure è stato, qui e ora, a partire da quel maledetto febbraio 2020.

Che ci sia di insegnamento, perché “da una pandemia non si protegge qualcuno a prescindere o a discapito degli altri, ma si può e si deve difendere una comunità solo nel suo insieme”.

Lo ricorderemo? Speriamo…