Quel fiume è la notte

notte

“Siamo la nostra capacità di sopravvivere ai lutti, nient’altro”.

Oddio, nient’altro no, speriamo di no. Ma sicuramente è verissimo: la capacità di sopravvivenza ad un lutto è sicuramente la nostra “misura” della vita; nel superamento o meno del terribile banco di prova della cosiddetta “elaborazione del lutto”  passa la differenza tra “riprendere a vivere” e “rimanere in vita”. Nella migliore delle ipotesi, tuttavia, non si vive come prima- chiariamoci.

Dopo un lutto nulla può essere come prima: non resta neanche la speranza che “la vita di prima” possa essere ripristinata. Chi ha sofferto in quel modo neanche ricorda la sensazione della “vita spensierata”: essa è morta con il colui che se ne è andato…

Il caso “particolare” di questo bellissimo romanzo di Flavia Piccinni è dato da un aborto, volontario, voluto sino in fondo, consapevole- almeno coì lei aveva sempre creduto. Un aborto legale, riconosciuto, salvifico. Eppure in questo caso fonte di depressione, angoscia, disistima, rimorsi, abulia, noia della vita. Quell’episodio della sua vita (il mese di maggio, l’alba di primavera, il lettino che corre veloce, il corridoio infinito, l’odore di disinfettante , l’atmosfera dell’ospedale, l’infermiera che le chiede: “Sei sicura?”, la sua consapevolezza che da quel momento in poi non sarebbe più stata sicura di nulla) la tortura, le torna alla mente con la violenza di un ferro arroventato… Tutto questo groviglio di sentimenti caratterizzano la protagonista, Lea, dopo che ha intrapreso un viaggio “a casaccio” e per nulla organizzato, alla ricerca di qualcosa, di se stessa, di tutto. O forse di nulla. Già, di nulla. Perché l’India non è per Lea quella fonte di redenzione morale che lei si aspettava quando decise di partire. Lo aveva vagheggiato come luogo ideale per smarrirsi, invece trova un luogo un misto di disordine, sporcizia, povertà, abbandono.

Le acque del Gange avrebbero dovuto segnare la “purificazione” finale della protagonista, che però non trova pace.
Toccante l’epilogo, nel quale torna per l’ennesima volta il rimorso della protagonista, che si rivolge al bambino-mai-nato (come non ricordare la grande Fallaci?) in un colloquio improbabile: “Lo so, non ci incontreremo mai più. Tu non potrai diventare grande, imparare a gattonare e poi a camminare, non imbratterai i muri della cucina, non saprai mai leggere e scrivere, non ti innamorerai (…). Non potrò dirti che vita è un mistero (…). Non potrò sbagliare né fami perdonare. Avrò forse altri bambini, e tutti saranno la mancanza di te. Per tutta la vita mi chiederò di che colore sarebbero stati i tuoi occhi, e i tuoi capelli. (…) Mi sentirò in colpa perché (…) non riesco ad accettare che sì, io proprio questo- proprio la tua morte- volevo”.

Toccante? No, angosciante, davvero …

Latineloqui69