Il colibrì

“Per colmare quel nulla nessuno fece nulla, nulla accadde e nulla si risanò”

Inquietante: non ci sono altri termini per definire questo romanzo del bravissimo Sandro Veronesi.

Ma partiamo da una necessaria ricerca tematica.

Il colibrì maschio

Il colibrì maschio

I Trochilidi sono una famiglia di uccelli dell’ordine Apodiformes, che comprende 357 specie comunemente note come “colibrì”. Sono considerati gli uccelli più piccoli al mondo: la maggior parte delle specie ha un peso tra 2,5 e 6,5 g e una lunghezza tra 6 e 12 cm. Hanno l’abilità di rimanere quasi immobili a mezz’aria, capacità garantita dal rapidissimo battito alare (dai 12 agli 80 battiti al secondo, a seconda della specie), e che consente loro di cibarsi del nettare dei fiori. La straordinaria mobilità degli arti superiori consente loro prodezze di volo inimmaginabili per altri uccelli, come volare all’indietro. Inoltre, in caso di scarsità di cibo o durante il sonno, sono in grado di cadere in uno stato di torpore che consente loro di risparmiare energia, rallentando drasticamente il loro rapidissimo metabolismo.

Mirabolante, no?

Nel coinvolgente libro di Veronesi, Marco Carrera è il colibrì. Il delizioso nomignolo è della madre, che “aveva coniato per il suo bambino il più rassicurante dei soprannomi, (…) per rimarcare che, insieme alla piccolezza, in comune con quel grazioso uccellino Marco aveva anche la bellezza (…) e la velocità”. La sua è una vita segnata all’inizio da un problema fisico, prontamente risolto grazie ad un prontissimo intervento dei genitori (dai nomi parlanti, Probo e Letizia) e alla potenza della scienza, poi da coincidenze fatali, perdite atroci e amori impossibili, in ogni senso. Eppure non precipita mai fino in fondo: il suo è un movimento incessante per rimanere fermo, saldo. Sì, perché “ci vogliono coraggio ed energia anche per restare fermi”! Intorno a lui, Veronesi costruisce un mondo intero, in un tempo liquido che si estende dai primi anni Settanta fino a un cupo futuro prossimo, quando all’improvviso splenderà il frutto della resilienza di Marco Carrera: è sua nipote, una bambina, l’unica che lo ripaga della tristezza della sua vita, crescendo sana e piena di vita, studiando con profitto, tenendosi lontana dai guai che pullulano intorno agli adolescenti e praticando molto sport. Ha un nome curioso, Miraijin, che la madre ha pescato in una saga di manga giapponesi intitolata “Miraijin Chaos”, creata dal grande Osamu Tezuka (il creatore di Astro Boy, La Principessa Zaffiro e Kimba!); sin dalla sua anscita è destinata ad essere, dunque, come dice il suo nome, “l’uomo del futuro”, “l’uomo nuovo”, da cui nascerà “la nuova umanità capace di sopravvivere alla rovina causata da quella vecchia”. Un romanzo a tinte forti, ma molto forti! Non immaginate un libriccino da lettura estiva, bensì un’opera molto forte e sconvolgente. Incentrato, per di più, su una tematica altrettanto “forte” come il fine vita.

Una cara collega, a cui devo la “dritta” del libro, me lo ha presentato dicendo di aver pianto alla fine della lettura. Quindi immaginavo una lettura magnetica, di quelle che sono capaci di tenerti con gli occhi incollati al fiume di parole per ore e ore, ma non avrei mai immaginato fino a tal punto… Veronesi riesce (con la sua abilità espressiva ma soprattutto con lo scavo psicologico dei personaggi, esattamente come nell’altro suo romanzo, “Caos calmo”, che ebbi a leggere vari anni fa, molto prima che la sua versione cinematografica lo segnalasse al mondo intero come un capolavoro della narrativa contemporanea …) a suscitare la nostra empatia, a buttarci dentro la storia, a farci indossare i panni stropicciati dei suoi personaggi più disagiati, senza per questo farci sentire degli alieni, dei diversi, degli “sfigati”, dei “forestieri della vita” di pirandelliana memoria. E così proviamo “compassione” (nel senso nobile, etimologico, latino del termine) in primis per la disagiata Irene, la prima che porta il freddo del lutto nella sua famiglia magari non felicissima ma “tranquilla”, poi per il freddo e apatico Giovanni, incapace di un gesto di volontà, più propenso ad “accontentarsi” di ciò che la vita gli manda, poi per i genitori, che non si prendono così tanto, ma infine (per una sorta di miracolo della natura umana) si ritrovano e fanno a gara di affetto persino nel loro fine vita, poi per Marina, capitata quasi per caso in quella famiglia così devastata, da cui non riuscirà ad uscire se non come una “vinta” di verghiana memoria, ma anche per Luisa, che non trova un’esatta collocazione nella vita. Eppure la nostra empatia è massima per Marco e Adele, padre e figlia, altri due “vinti”, per quanto così diversi tra loro; l’una per una sorta di “sfiga” (con trovo altro termine più icastico di questo, mi spiace…) che la tiene legata a sé, anche quando pensa di essersene liberata, dopo essersi finalmente sciolta da quel “filo” maledetto che la rendeva incapace di vivere allegra e spensierata, anche quando l’auspicio della maternità le regala la dolcezza vera della vita; l’altro per la sfortuna di sopravvivere ad una serie di sciagure dalle quali rischia di essere risucchiato me che alla fine vince grazie alla presenza della straordinaria (nel senso letterale del termine) nipotina, che gli fa assaporare la bellezza della Vita, almeno per una decina d’anni, finché il destino non si accanisce di nuovo e lo porta a prendere una decisione irreversibile, estrema, terribile. Magari non condivisibile, ma comunque “patetica”.

Sono proprio le ultime pagine del romanzo quelle che ci colpiscono più nel profondo, quelle che alla fine ci fanno piangere (concordo con la mia collega), catarticamente. Per ammirazione? Non so. Per rispetto? Forse. Per pietas? Probabilmente. Per incomparabilità? Sicuramente. Resta il fatto che Veronesi riesce laddove non riescono i dibattiti di migliore qualità che ogni tanto (eterne fenici) risorgono dalle loro ceneri ogniqualvolta l’attualità ci ripresenta casi devastanti di questo tipo…

Difficile, semmai, può risultare la lettura se ci aspettiamo il “classico” romanzo con fabula ordinata o intreccio comunque maneggiabile. Ci è richiesta, infatti, una capacità di orientamento non indifferente tra salti temporali, analessi e prolessi, forme espressive diversissime tra loro (lettere “antiche, scritte  a penna stilografica, con le buste leccate e i francobolli”, più moderne ed agili e-mail, prosa narrativa, persino screenshot di modernissime chat ed elenchi di inventario…) che ci sballottano nell’andirivieni delle vicende di vita. A tal proposito ho trovato sul web una serie di recensioni negative, con cui non concordo. Non si tratta, anche in questo caso, di un’abilità? Non è un guanto di sfida lanciato al lettore? Ritengo, al contrario, che nel futuro potrebbe essere considerato un capolavoro anche per questo suo essere “sperimentale”.

ANCHE per questo si tratta dunque di un libro che non possiamo non conoscere!

colibrì

Dati sul colibrì tratte da https://it.wikipedia.org/wiki/Trochilidae