Sotto padrone

 

omizzolo

Marco Omizzolo

Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana.  317 pagine.

 

Quando sono venuti qui bevevano dal naso e noi gli abbiamo insegnato a bere dalla bocca!”

18 staffilate al cuore. O meglio alle nostre coscienze. 317 pagine di denuncia di un sistema di sfruttamento che ci riporta indietro di secoli nel buio della storia, fino all’epoca dello schiavismo. Quello più bieco della tratta dei neri d’Africa. O, ancora più indietro, quello della convinzione che gli schiavi siano “macchine parlanti”, come sosteneva il nostro padre Catone il Censore nel suo “De agri cultura”. Ma se questa idea poteva essere concepibile all’epoca dei Romani, NON può esserlo oggi. Eppure sopravvive, latente ma presente ai nostri giorni,  nella società della tecnologia e dell’evoluzione.

Provate ad andare in quel bellissimo centro abitato pontino che è Sabaudia, in provincia di Latina, e vi renderete conto che qualcosa non va.  Marco Omizzolo lo ha fatto; all’inizio gli davano del pazzo, o quantomeno dell’idealista, ma dopo dieci anni i suoi semi hanno fruttato diritti. Eppure, quanto è stato difficile! Dieci anni di studi, di conversazioni, di ricerche, di scoperte al limite dell’inverosimile, di lavoro duro, di botte, di intimidazioni, di ritorsioni, di macchina del fango. Alla fine, la luce in fondo al tunnel: il 18 aprile 2016 Marco riesce a metter su uno sciopero che vede scendere in piazza 4000 donne e uomini chiedono giustizia e libertà; il giorno dopo: il mondo si accorge di lui e di loro, i sikh, la comunità indiana che vive a Sabaudia e nei dintorni, quelle gambe  che pedalano stanche di notte e si muovono silenziose dentro le serre. Braccia da lavoro, non uomini. Schiene spezzate, non uomini. Macchine da lavoro, non uomini. Braccianti dopati per lavorare come schiavi e suicidi per sfruttamento. Ragazzi che muoiono -letteralmente- di fatica. Donne che subiscono ogni giorno ricatti e violenze sessuali, a cui quasi mai riescono a sottrarsi. Perché  deboli psicologicamente, perché ricattabili, perché hanno una famiglia lontana  a cui pensare, che viene prima addirittura di una violenza fisica e mentale. Uomini che vivono come bestie in capanne che non hanno nulla della casa cui tutti abbiamo diritto in quanto esseri umani. Men che mai nel 2020. Il tutto in nome del lucro, del mercato, della speculazione, del sistema che prevede il massimo risultato con la minima spesa, nel nome del massimo guadagno. Lavorare  a testa bassa, dall’alba al tramonto, in una serie sconfinata di campi  a 40° all’ombra o in serre senz’aria, nel più fortunato dei casi  a 4 euro al giorno, fino a 10-12 ore al giorno, con una sola pausa-pranzo (se così si può chiamare).  E  poi vedersi riconosciute  solo 2-3 ore dal “padrone buono”. O così o te ne vai. E attento a non parlarne in giro. Mentre “padrone buono” sfoggia un parco macchine di Mercedes, BMW, Ferrari, che cambia ogni due mesi. Mentre persino le forze dell’ordine (non tutti, per fortuna) intervengono per proteggere i datori di lavoro, non il giornalista di turno che va in giro per quei campi di morte con la sua troupe. E poi, ancora più miserabili, i caporali, quelli che garantiscono che  gli ingranaggi del sistema siano sempre ben oliati. Sì, perché il sistema delle agromafie e della eco-agromafie non potrebbe funzionare così “bene” se non fossero tante le pedine  che si muovono sulla scacchiera.

Praticamente impossibile scalfire il tutto. Impossibile per tutti tranne che per Marco Omizzolo, che dedica 10 anni della sua vita a questo scopo, arrivando a fare l’infiltrato tra quei braccianti indiani (e non solo indiani) dell’Agro Pontino, intraprendendo un viaggio folle fin nel Punjab, la regione indiana da cui la maggior parte di loro proviene, per immergersi nella loro cultura e conoscerla più da vicino e per mettersi sulle tracce di un trafficante di esseri umani che lucra sulla disperazione.  Fino alla legge 199/2016 contro lo sfruttamento lavorativo, che segna un momento di Risorgimento della civiltà del nostro Paese e una vittoria di Marco, che per questo motivo riceve dal Presidente Mattarella il titolo di Cavaliere della Repubblica italiana. Eppure lui non si inorgoglisce, ma dedica quel premio al padre, alla compagna. E trova i suoi personali cavalieri della Repubblica:  Kuldip, Benedetto e Greta. Soprattutto Greta. “Si chiama Greta, come Greta Thunberg, ma lei è Greta Kaur”, una ragazzina minuta delle scuole medie che la ascolta rapita e che alla fine dell’incontro lo saluta dicendogli: “Ti vorrei ringraziare perché ascoltandoti ho capito che cosa voglio fare da grande. Voglio fare la giornalista. Ma non una giornalista qualsiasi, una giornalista per la giustizia”. A quel punto tutto il lavoro fatto ha un senso. Perché “parlare ai giovani è fondamentale” e rendere possibile “vivere in un mondo migliore, non utopico ma reale e presente solo a un metro davanti a noi”.

E ricordiamo sempre che  “le agromafie sono interne al sistema perché contribuiscono al prodotto interno lordo, al benessere del Paese, a calmierare i costi di beni fondamentali al nostro sostentamento, a fornire risorse ai poveri che non possono acquistare prodotto d’eccellenza a causa dei costi elevati”

Ricordiamolo sempre, quando andiamo a fare la spesa, scegliendo magari il peperone più bello e più lucido. Quel peperone, oltre che da fitofarmaci, è lucidato con il sudore di quei lavoratori schiavi. Braccianti che “vivono in ricoveri di fortuna anche a causa di politiche dissennate di sgombero dei loro accampamenti senza alternative attuate dalla politica di destra e di sinistra, pronti a svolgere quei lavori che noi italiani facciamo sempre meno”.

Grazie, Marco.

Grazie a chi -involontariamente- mi ha proposto la lettura di questo libro-inchiesta. Uno delle opere dell’ingegno più “pesanti” che io abbia affrontato. Uno dei più preziosi per la mia crescita di cittadina e donna del mondo.