Le ultime lettere di Jacopo Ortis

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Le Ultime lettere di Jacopo Ortis sono un romanzo di Ugo Foscolo, considerato il primo romanzo epistolare della letteratura italiana, nel quale sono raccolte le lettere che il protagonista, Jacopo Ortis, mandò all’amico Lorenzo Alderani, che dopo il suicidio di Jacopo, le avrebbe date alla stampa corredandole di una presentazione e di una conclusione. Vagamente ispirato ad un fatto reale, e al modello letterario de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe, l’opera risente molto dell’influsso di Vittorio Alfieri, al punto da essere definito “tragedia alfieriana in prosa”.

La vicenda trae origine dal suicidio di Girolamo Ortis, uno studente universitario nato a Vito d’Asio (Pordenone) il 13 maggio 1773 e morto il 29 marzo 1796. Foscolo mutò il nome di Girolamo in Jacopo, in onore di Jean-Jacques Rousseau. Nel paese nativo esiste tuttora la casa del giovane, ristrutturata dagli eredi a seguito del terremoto del Friuli del 6 maggio 1976.

Il romanzo si ispira alla doppia delusione avuta da Foscolo nell’amore per Isabella Roncioni, che gli fu impossibile sposare, e per la patria, ceduta da Napoleone all’Austria in seguito al Trattato di Campoformio. Il romanzo ha, quindi, chiari riferimenti autobiografici.

Nella forma e nei contenuti è molto simile a I dolori del giovane Werther di Goethe (anche se a tratti richiama la Nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau); per questo motivo alcuni critici hanno addirittura definito il romanzo “una brutta imitazione del Werther”. Tuttavia, la presenza del tema politico, assai evidente nell’Ortis e appena accennato nel Werther, segna una differenza chiara e rilevante tra i due libri. Inoltre si avvertono la presenza dell’ispirazione eroica di Vittorio Alfieri e l’impegno civile e politico del poeta in quegli anni.

Jacopo Ortis è uno studente universitario veneto di passione repubblicana, il cui nome è nelle liste di proscrizione. Dopo aver assistito al sacrificio della sua patria si ritira, triste e inconsolabile, sui colli Euganei, dove vive in solitudine. Passa il tempo leggendo Plutarco, scrivendo al suo amico, trattenendosi a volte con il sacerdote curato, con il medico e con altre brave persone. Jacopo conosce il signor T., le figlie Teresa e Isabellina, e Odoardo, che è il promesso sposo di Teresa, e comincia a frequentare la loro casa. È questa una delle poche consolazioni per Jacopo, sempre tormentato dal pensiero della sua patria schiava e infelice.

 

La lettera  di apertura del romanzo è indirizzata a Lorenzo Alderani ed è stata scritta l’11 ottobre 1797. Jacopo fa riferimento al sacrificio della patria, ormai “consumato”. Egli così fa intendere di aver perso ogni speranza per la patria e per se stesso.

In questo romanzo è presente l’ispirazione eroica di Vittorio Alfieri. In questo senso il suicidio qui va inteso come scelta dell’ultima libertà che il destino non può togliere, quindi assume un alto valore spirituale, in quanto dimostra che nella vita sono essenziali gli ideali senza i quali l’esistenza diventa priva di significato e di dignità.

La patria è un altro motivo presente, peraltro sacro al Foscolo. “Il sacrificio della patria nostra è consumato…”: è un’affermazione scritta nell’incipit dell’opera, che condensa la delusione storica dell’intellettuale giacobino veneto (trattato di Campoformio; delusione per la fine delle repubbliche democratiche del 1799).

Si presenta poi conflittualmente il rapporto intellettuale-società, connotazione fondamentale del Romanticismo europeo. La società tutta, impegnata solo ad occuparsi del benessere materiale, appare indifferente al richiamo dei valori ideali e al sacrificio, richiamo fatto dall’intellettuale: “In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano, l’universalità che serve; e i molti che brigano. Noi [gli intellettuali] non possiamo comandare, né forse siamo tanto scaltri.[…] Tu mi esalti sempre il mio ingegno: sai quanto io vaglio? né più né meno di quanto vale la mia entrata….” (4 dicembre 1799).

L’amore mostra un dissidio già romantico fra natura e intelletto, fra passione e dovere: “Bensì Teresa parea confusa, veggendosi d’improvviso un uomo che la mirava così discinta […]; essa tuttavia proseguiva, ed io sbandivo tutt’altro desiderio, tranne quello di adorarla e udirla” (3 dicembre). Anche il paesaggio, ora pittoresco, ora idillico come in Rousseau, ora cupo secondo i moduli dell’ossianismo riflette questo dissidio interiore.

Le illusioni sono invece viste in funzione consolatrice e come fonte di generose passioni:“Illusioni! grida il filosofo. Or non è tutto illusione? tutto! [….] Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor di più) nella rigida e noiosa indolenza, e se questo cuore non vorà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele” (15 maggio 1798).

Viene pure anticipato da Foscolo anche un motivo fondamentale delle sue opere: la morte, la speranza di essere compianto (“la morte non è dolorosa“) e la sepoltura nella propria terra (lettere dell’11 ottobre 1797 e del 25 maggio 1798).

Un vero capolavoro, per forma e contenuto.

(Liberamente tratto da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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