Memoria

MEMORIA

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.

Comprano cibi e giornali, muovono a imprese diverse.

Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.

Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso.

Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.

Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto.

Solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.

E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani eran quelle

che spezzavano il pane e versavano il vino.

Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo

a guardare il suo viso per l’ultima volta.

Se cammini per strada nessuno ti è accanto.

Se hai paura nessuno ti prende la mano.

E non è tua la strada, non è tua la città.

Non è tua la città illuminata. La città illuminata è degli altri,

degli uomini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali.

Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra

e guardare in silenzio il giardino nel buio.

Allora quando piangevi c’era la sua voce serena.

Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.

Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;

e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

Natalia Ginzburg

leone g

Questo era Leone Ginzburg: inviato nel 1940 al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimane fino al 1943; viene poi torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli.

La moglie, Natalia Ginzburg, nata Levi, gli dedicò la poesia che vi ho riportato e che (confesso…) non ricordavo proprio: la sua citazione in una fiction vista recentemente (La guerra è finita)  mi ha spinto a cercarmela e a leggerla.

Una poesia impostata come un dialogo a se stessa, a quello che resta di sé, che trasuda amore per il coniuge (“Era il viso consueto), ma anche abbandono, sofferenza, solitudine (“Se cammini per strada nessuno ti è accanto./Se hai paura nessuno ti prende la mano), consapevolezza della perdita irreversibile della propria metà (“Allora quando piangevi c’era la sua voce serena./ Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso). E ancora: ricordo di un gesto che non vorremmo mai dover fare (“Sollevasti il lenzuolo”), riflessione su un cancello che la sera non si aprirà mai più, su una vita che non tornerà più la stessa, ma porterà i segni di quel violento cambiamento. Per questo motivo l’ultimo verso non è solo un saluto finale, non  è un “ave atque vale” catulliano, ma è un grido di angoscia:  “e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa”. Una klimax che ci lascia senza fiato e ci fa allo stesso tempo toccare con mano l’elevatezza di un amore così grande… ♥