ALLA LUCE DEL SOLE

luce_soleAlla luce del sole

Io sono venuto qua per aiutare la gente perbene a camminare a testa alta“.
Roberto Faenza mette sullo schermo gli ultimi due anni di vita di padre Pino Puglisi (Luca Zingaretti), coraggioso parroco palermitano assassinato il 15 settembre del 1993. Giuseppe Puglisi, detto Pino o, meglio, 3P dai suoi amici, parroco nella chiesa di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio, uno dei capisaldi della Mafia. Don Pino era nato lì, ne conosceva i linguaggi e le mezze parole, i suoni e gli odori, quindi, molti anni dopo, nel 1990, ci era ritornato. Era di umili origini: il padre era calzolaio, la madre sarta, genitori di solidi principi. Viene ordinato sacerdote il 2 luglio del 1960. Era un uomo colto, lettore onnivoro: viveva in modo ascetico, circondato SOLO dalla semplicità, dall’essenziale, dai libri. Aveva il dono di andare al cuore delle persone e sapeva trovare il linguaggio giusto per ognuno. Insegnava religione e matematica, e pare che all’inizio delle lezioni (ce lo testimonia anche un suo allievo d’eccezione, Alessandro D’Avenia…) si presentasse con una scatola di cartone vuota e ci salisse sopra dicendo alla classe: “Avete capito chi sono io? Un rompiscatole!“.
Non solo ebbe il sogno ambizioso del recupero e dell’avvio ad una autentica cultura della legalità di ragazzi e fanciulli di quel “famigerato” quartiere, ma anche il coraggio di realizzarlo in un luogo e in un momento tra i più neri nella storia del Paese. Brancaccio è infatti storicamente il quartiere dei boss, il luogo in cui lo Stato da sempre cede il posto alla Mafia. Tale situazione era tanto più grave tra il 1992 ed il 1993: il periodo delle ben note stragi di Capaci e di via D’Amelio che avevano ucciso, straziandoli, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; il periodo delle bombe mafiose a Roma in via Fauro, alla basilica di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro, a Firenze in via dei Georgofili, nei pressi degli Uffizi, e infine a Milano in via Palestro.  Il 25 luglio 1993, una mossa che oggi definiremmo “di grande impatto comunicativo”: don Pino organizza una manifestazione per ricordare il giudice Paolo Borsellino e  durante la Messa, pronuncia un’omelia durissima: “Gli assassini, coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali. Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi tenta di educare i vostri figli alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile”. Quindi prosegue, caparbio, nella realizzazione del suo sogno: la costruzione di un Centro d’accoglienza colorato e accogliente, caloroso e gioioso, semplice ma fornito di tuto l’essenziale, in quel luogo abbandonato da tutti, ma non da lui;  l’evento che lo porterà in rotta di collisione con gli interessi mafiosi del quartiere; la sua immediata condanna a morte.

Puglisi dunque – se si escludono le suore del Centro e i volontari che lo frequantano- svolge la propria opera in una situazione di profonda solitudine e di isolamento da parte di istituzioni, gerarchia ecclesiastica e della stessa gente di Brancaccio che il parroco si era proposto di riscattare. E infatti muore. Solo. Il giorno del suo compleanno, il giorno in cui “se lo aspettava” (come dice, senza paura, ai suoi sicari, guardandoli dritto negli occhi). Nella scena di maggiore Spannung del film, ben rappresentata dall’efficace scelta della copertina del film.

Da vedere. Da imparare a memoria. Da recitare dentro di noi. Grazie, Faenza!

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