Mandami tanta vita

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Mandami tanta vita è un romanzo di Paolo Di Paolo, pubblicato nel 2013 dall’editore Feltrinelli.

Moraldo, che studiava all’università di Torino, era attratto dalla vitalità intellettuale di Piero che, alla sua ancora giovane età, era già stato fondatore ed editore di riviste e giornali e contemporaneamente combatteva la svolta autoritaria che aggrediva la democrazia parlamentare italiana. Quel Piero era Gobetti, il cui carisma schiacciava il giovane studente di Casale Monferrato al punto che quest’ultimo non riusciva a trovare il coraggio di affrontarlo per proporsi come collaboratore delle sue intraprese editoriali, anche solo come caricaturista; anche due sue lettere spedite al “giovane editore” non avevano ricevuto risposta. Nei giorni del carnevale del 1926 Gobetti, al fine di proseguire l’attività editoriale e giornalistica era costretto ad allontanarsi da Torino e a fuggire a Parigi, per fuggire dalle persecuzioni fisiche dello squadrismo terroristico e dagli ostacoli frapposti dal fascismo, lasciando l’amata Ada con il figlio nato da appena un mese, Moraldo, in seguito a un involontario scambio di valigie, conosceva Carlotta, una fotografa emancipata che per lavoro era in transito a Torino. Quando, dopo eventi che prefiguravano un possibile grande amore, Carlotta abbandonò Torino per Parigi, Moraldo la raggiunse nella capitale francese. Ma le speranze dei due giovani si infransero. Carlotta rifiutava l’amore e la vita di Piero si spegneva. Neppure un fortuito incontro nel Bois de Boulogne venne colto da Moraldo. Apprenderà la notizia della morte del “giovane editore” dall’edizione del mattino di un giornale avuta dalle mani di uno strillone, appena varcato il confine, sulla strada ferrata per Torino.

Bellissimo l’incipit, una sorta di “gnome” (o sententia): “Fidarsi della prima impressione può portare fuori strada. Comunque, per lui, era stata antipatia”.

Simpatica (nel senso etimologico del termine) l’ambientazione iniziale: un’aula universitaria della Facoltà di Lettere e Filosofia (di Torino, ma lo capiremo in seguito), una lezione di Letteratura italiana (o materia consimile) di un Professore che legge e commenta “ostinato e a voce bassa, gareggiando in monotonia con lo scroscio della pioggia” una terzina INCOMPRENSIBILE del Purgatorio dantesco. In questo contesto così aulico e sacrale si inserisce l’interruzione (irriverente, ma ai nostri occhi simpatica…) di “un gruppo di tre o quattro seduti alle ultime file”, cui il professore risponde in maniera piccata.

Icastica la rappresentazione del personaggio Piero: “Quel tizio era antipatico, sì, inutile girarci intorno. Sicuro di sé, sprezante: un ragazzino pallido cresciuto troppo in fretta, nervoso nei movimenti, il pomo d’Adamo sporgente. Avrebbe poi scoperto che lui e il suo piccolo clan venivano dalla facolà di Legge, e che ohni tanto passavano da Lettere come uditoti. Lui, il capo, aveva appena fondato una rivistina seriosa: ne aveva lasciata qualche copia sparsa sugli ultimi banchi. Si dava un gran da fare tra conferenze, libri, discorsi di politica. C’era chi li chiamava, lui e i suoi amici, l’Accademia dei Patiti”.

Molto toccante l’explicit: “Reale come la vita che continua, mentre di un uomo si è costretti a dire era, è scomparso- e una parte di noi con lui”.

Interessante la nota finale dell’autore: “Mi porto dietro l’idea di questo romanzo dal 2008: stavo per compiere gli anni che Piero Gobetti (1901-1926) non ha compiuto. Non sapevo molto di lui, ma quel poco mi ha spinto ad immaginare, Nel gennaio del 2009, a Parigi, sono andato al cimitero di Père- Lachaise in cerca della sua tomba. Era- accade di rado- chiuso per ghiaccio e neve.  Antonio Tabucchi, che avrei incontrato quello stesso pomeriggio, mi incoraggiò a non abbandonare questa storia”.

Aggiungiamo a questo punto alcuni (necessari) dati biografici sul personaggio di Piero Gobetti:

Piero Gobetti è stato un giornalista, politico e antifascista italiano.

Considerato un erede della tradizione post-illuminista e liberale che aveva guidato l’Italia dal Risorgimento fino a poco tempo prima tuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle rivendicazioni del socialismo, fondò e diresse le riviste Energie NoveLa Rivoluzione Liberale e Il Baretti, dando fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle violenze fasciste, ne provocassero la morte prematura a 25 anni durante l’esilio francese. Passato nel 1916 al Liceo classico Vincenzo Gioberti, dove è iscritta e conosce la futura moglie Ada Prospero, ha per professore d’Italiano Umberto Cosmo e per insegnante di filosofia Balbino Giuliano, che gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che sono propri del Salvemini e spingono Gobetti ad anticipare di un anno l’esame di maturità, superato nell’estate del 1918, allo scopo di poter andare, libero da impegni, volontario alla guerra. La guerra è ormai vinta quando Piero, in ottobre, s’iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, in quella Università torinese che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di suo interesse: letteratura, arte, filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Luigi Einaudi, da cui «rafforza il suo primitivo, spontaneo antistatalismo, in cui s’incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale» e Gioele Solari, con il quale nel giugno del 1922 sosterrà la tesi di laurea, ottenuta a pieni voti, su La filosofia politica di Vittorio Alfieri. Nel maggio del 1924 Gobetti va a Parigi e poi a Palermo per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e il 1º giugno Mussolini telegrafa al prefetto di Torino Enrico Palmieri: «Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Il prefetto obbedisce e il 9 giugno Gobetti viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive a Emilio Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e all’estero per organizzare le forze antifasciste. È il giorno che precede la scomparsa di Giacomo Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti. Gobetti ne traccia un profilo il 1º luglio: «Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti […] vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo […] Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo». A metà agosto lui e la moglie Ada Prospero fanno ritorno a Torino e il 5 settembre è nuovamente picchiato dagli squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere in Italia: «Bisogna amare l’Italia con orgoglio di europei e con l’austera passione dell’esule in patria» – scrive nell’articolo Lettera a Parigi del 18 ottobre – «per capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi viviamo nella presente realtà fascista […] le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di antifascisti: per essere europei dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti». Gobetti, che ora soffre anche di scompensi cardiaci, provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l’Italia per proseguire in Francia l’attività editoriale. Il 28 dicembre nasce a Torino il figlio Paolo (1925-1995), che durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista all’Unità e storico del cinema. Il 6 febbraio 1926 Gobetti parte da solo per Parigi: alla stazione di Genova viene a salutarlo Eugenio Montale. A gennaio scrive una lettera al suo mentore Giustino Fortunato: «Parto per Parigi dove farò l’editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un’opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna». L’11 febbraio si ammala di una bronchite che aggrava i suoi problemi cardiaci: trasportato il giorno 13 in una clinica di Neuilly-sur-Seine, vi muore alla mezzanotte del 15 febbraio 1926, assistito da Francesco Fausto e Francesco Saverio Nitti, da Prezzolini e da Luigi Emery. È sepolto nel cimitero parigino del Père Lachaise.

(Liberamente tratto da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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