“Avvenne oggi”: Rastrellamento del ghetto di Roma

DIstrazione

RICORDANDO IL 16 OTTOBRE 1943

Il rastrellamento del ghetto di Roma fu una vera e propria retata di 1259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica -che a quella data contava tra le 8.000 e le 12.000 persone- effettuato dalle truppe tedesche della Gestapo tra le ore 05:30 e le ore 14:00 di sabato 16 ottobre 1943 (da cui il ricordo di questo giorno come Sabato nero), principalmente in Via del Portico d’Ottavia e nelle strade adiacenti ma anche in altre differenti zone della città di Roma.

Dopo il rilascio di un certo numero di componenti di famiglie di sangue misto o stranieri, 1 023 rastrellati furono deportati direttamente al campo di sterminio di Auschwitz.

Soltanto 16 di loro sopravvissero (15 uomini e una sola donna, Settimia Spizzichino, morta nel 2000). Con la scomparsa di Enzo Camerino nel 2014, il solo Lello Di Segni è ancora in vita tra i sopravvissuti.

Tutto cominciò dopo il “famigerato” 8 settembre 1943, per la precisione il 10 settembre, con l’occupazione tedesca di Roma. Il giorno dopo Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS e comandante della Gestapo a Roma, ricevette il seguente  messaggio da Heinrich Himmler (ministro dell’interno, comandante delle forze di sicurezza della Germania nazista e teorico della soluzione finale della questione ebraica): “I recenti avvenimenti italiani impongono una immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich”.

Il 24 settembre successivo Himmler fu più esplicito; in un telegramma segreto e strettamente riservato per il colonnello Kappler disponeva: “tutti gli Ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa”.

Nel pomeriggio di domenica 26 settembre 1943, Kappler convocò presso il proprio ufficio a Villa Wolkonsky il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ugo Foà, e quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi, intimando loro la consegna, entro trentasei ore, di almeno 50 chilogrammi d’oro, minacciando prima la deportazione di duecento Ebrei romani verso la Germania, poi quella di tutta la comunità ebraica. In cambio dell’oro, Kappler promise agli Ebrei l’incolumità. Si trattava, in realtà, di un colossale inganno, ma nessuno poteva immaginarlo…

La mattina dopo iniziò la raccolta dell’oro all’interno del Tempio maggiore (sinagoga). Nel pomeriggio la Santa Sede, informata del ricatto di Kappler, comunicò in via ufficiosa che avrebbe autorizzato un prestito in lingotti d’oro sino al raggiungimento dei 50 chilogrammi richiesti dalla polizia tedesca, ma alla fine non fu necessario.

Alle ore 18 di martedì 28, dopo una proroga dei termini di quattro ore, accordata dallo stesso Kappler, i capi della Comunità ebraica romana si presentarono a Villa Wolkonsky per la consegna dell’oro. Kappler li fece accompagnare da una scorta nel vicino edificio di Via Tasso 155, dove l’oro fu pesato per ben due volte e alla fine risultò pesare 50,3 chilogrammi.

Kappler spedì immediatamente l’oro a Berlino, al capo dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, generale Ernst Kaltenbrunner, con una lettera di accompagnamento nella quale si esprimevano perplessità sulla fattibilità della deportazione e si suggeriva di utilizzare gli ebrei romani come mano d’opera per lavoro obbligatorio.  Kaltenbrunner rispose sdegnato: “È precisamente l’estirpazione immediata e completa degli Ebrei in Italia nell’interesse speciale della situazione politica attuale e della sicurezza generale in Italia”.

A guerra finita, l’oro fu trovato intatto nella cassa, in un angolo dell’ufficio di Kaltenbrunner.

Il 14 ottobre successivo, Kappler ordinò il saccheggio delle due biblioteche della Comunità ebraica e del Collegio rabbinico e fece caricare due vagoni ferroviari diretti in Germania con materiale di inestimabile valore culturale.  Gli agenti di Kappler portarono via anche gli elenchi completi dei nomi e degli indirizzi degli Ebrei romani.

Lo stesso giorno, Kappler inviò ad Hoess ( comandante del campo di sterminio di Auschwitz) una lettera per dirgli che avrebbe ricevuto intorno al 22-23 ottobre un carico di oltre 1 000 Ebrei italiani e per invitarlo a prepararsi a concedere loro il “trattamento speciale”.

All’alba di sabato 16 ottobre 1943, giorno festivo per gli Ebrei, scelto appositamente per sorprenderne il più possibile, 365 uomini della polizia tedesca, coadiuvati da quattordici ufficiali e sottufficiali, effettuarono in maniera mirata il rastrellamento degli appartenenti alla comunità ebraica romana.  Nessun italiano fu ritenuto da Kappler abbastanza fidato da poter partecipare all’azione.

La Gestapo operò prima bloccando gli accessi stradali e poi evacuando un isolato per volta e radunando man mano le persone rastrellate in strada. Anziani, handicappati e malati furono gettati con violenza fuori dalle loro abitazioni; si videro bambini terrorizzati che si aggrappavano alle gonne delle madri e donne anziane che imploravano invano pietà. Nonostante la brutalità dell’operazione, le grida e le preghiere strazianti, i rastrellati si ammassarono abbastanza disciplinatamente, tanto che – a detta di Kappler – non fu necessaria l’esplosione di nessun colpo di arma da fuoco.

I complessivi 1.259 rastrellati – molti di loro ancora vestiti per la notte – vennero caricati in camion militari coperti da teloni e trasportati provvisoriamente presso il Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara; rimasero nei locali e nel cortile del collegio per circa trenta ore, separati per genere ed in condizioni assolutamente disagiate.Tra di loro c’era anche un neonato, figlio della  ventiquattrenne Marcella Perugia, venuto alla luce il 17 ottobre.

La verifica dello status dei prigionieri condusse al rilascio di 237 di loro, identificati come cittadini stranieri, compreso uno di nazionalità vaticana, componenti di unioni o famiglie miste, ed altri risultati di “razza ariana”. Una giovane ventenne originaria di Ferrara, tal Piera Levi, arrestata casualmente con la madre nel centro di Roma mentre si trovavano ospiti di alcuni parenti, saputo che né il suo nome né quello della madre risultavano negli elenchi delle persone ricercate, riuscì coraggiosamente a convincere Theodor Dannecker che entrambe erano cattoliche e lei stessa ebrea solo per metà, ottenendo il rilascio di entrambe. Rimase, invece, nel gruppo una donna cattolica che si dichiarò ebrea per non abbandonare un giovane orfano molto malato che era stato affidato alle sue cure. Entrambi furono assassinati nella camera a gas al loro arrivo ad Auschwitz.

I 1022 deportati furono trasferiti alla stazione ferroviaria Tiburtina, dove furono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame. A loro si aggiunse spontaneamente Costanza Calò, che era fortunosamente sfuggita alla retata, ma che non volle abbandonare il marito e i cinque figli catturati.

Sicché il numero definitivo degli Ebrei avviati ai campi della morte fu di 1023.  Il loro convoglio, partito alle 14.05 di lunedì 18 ottobre, giunse al campo di concentramento di Auschwitz alle ore 23.00 del 22 ottobre ma i deportati rimasero chiusi nei vagoni sino all’alba. Nel frattempo, uno o due anziani erano già morti durante il trasporto e un giovane, Lazzaro Sonnino a nord di Padova era riuscito a fuggire, gettandosi dal convoglio in movimento.

Fatti uscire dai vagoni, i deportati vennero suddivisi in due schiere: da una parte 820, giudicati fisicamente inabili al lavoro e dall’altra 154 uomini e 47 donne, dichiarati fisicamente sani. Gli 820 del primo gruppo furono immediatamente condotti nelle camere a gas, mascherate da “zona docce” e uccisi;  i loro cadaveri immediatamente bruciati nei famigerati forni crematori.

I deportati dell’altro gruppo furono in parte destinati ad altri campi di sterminio.

Tornarono in Italia solo 15 uomini e UNA DONNA (e nessun bambino sotto i 14 anni…).

Tra coloro che rimasero ad Auschwitz, sopravvisse solo Cesare di Segni. L’unica donna superstite, Settimia Spizzichino, sopravvisse alle torture di Bergen-Belsen.


 DATI E INFORMAZIONI TRATTI DA WIKIPEDIA, L’ENCICLOPEDIA LIBERA