Ricordare stanca

“Ma voi, la rabbia, dove l’avete messa?”

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Il 9 maggio è la giornata dedicata alla memoria delle vittime del Terrorismo. In quel giorno del 2011, quindi, ci fu una speciale cerimonia in ricordo dei dieci magistrati caduti negli Anni di Piombo. Tra questi Francesco Coco, ucciso nel 1976, il primo assassinato dalle Brigate Rosse, il primo “bersaglio istituzionale”, il primo “colpo al cuore dello Stato”. A quella cerimonia tenutasi nel Salone dei Corazzieri al Quirinale Massimo volle che fosse presente anche suo figlio Francesco (che del nonno porta il nome, anche perché – per uno strano scherzo dei numeri- è nato il 10 giugno, l’anniversario delle esequie di Stato del nonno e degli altri due caduti…), che allora aveva otto anni, ritenendo arrivato il momento che egli cominciasse a sapere qualcosa della storia di quel nonno che non aveva mai potuto conoscere, quella storia in cui a ogni domanda seguiva sempre la risposta: “Quando sarai più grande…”.

La commemorazione segue un antico copione: il figlio di un magistrato “parla del dolore, del ricordo, dice di come non si debba mai odiare, di come tutti i colpevoli debbano pentirsi e di come si debba sempre guardare avanti”. “Insomma, niente odio niente vendetta niente rancori niente rivalsa, anzi, niente di niente, abbracciamoci e riconciliamoci”?  Poi prende la parola il figlio dell’autista del padre, Massimo Deiana (per ironia della sorte si chiama come lui), che “dice delle cose terribili”, ma “proprio quelle che ti prendono davvero. Spiega di quanto sia falso che il tempo è capace di lenire se non cancellare i ricordi dolorosi”.

Ed è proprio questo lo stato d’animo dell’autore del libro: egli NON perdona, NON dimentica, NON vuole “spingere quella notte più in là”. Chiaro e diretto il riferimento puntuale (che si ripete più volte nel corso del libro) a Mario Calabresi, che ha scelto di assumere il comportamento esatto opposto a quello di Massimo Coco, che invece preferisce sognare “romanticamente di illuminarla con le luci della verità e della giustizia”.  Anche se nessuno sembra indignarsi nel vedere gli assassini di ieri pontificare dalle cattedre, intervenire sui giornali, ottenere pubblicamente un perdono che non hanno neppure cercato, lui lo fa!

Usa persino la parola vendetta, precisando: “c’è anche quella, se proprio qualcuno vuole metterci in bocca questa parola, cosa che accade quasi automaticamente proprio quando nominiamo “giustizia”, manco fossero sinonimi”. La sua vendetta egli la tiene per mano in quel momento: è suo figlio. La sua rivincita è “poterlo guardare dritto negli occhi per raccontargli con orgoglio la storia del nonno (…) una specie di supereroe come quelli che lui vede nei cartoni animati o di cui legge nei fumetti”.

E per fare questo, decide di scrivere anche lui un libro, “ora che l’hanno pubblicato un po’ tutti, al punto che ormai non fa più nemmeno tendenza”. Un libro per ricordare la bellissima figura del padre, ma soprattutto per dire al mondo intero che “nessuno ha il diritto di giudicare chi dà libero sfogo a impulsi non facilmente contenibili perché scatenati dalla crudezza del ricordo, dalla mancata rimozione, e nessuno ha il diritto di irridere la fragilità altrui”. Perché NON è vero che “per mondare gli orrori del passato basta superarli, voltare pagina, scommettere tutto sull’amore per la vita”. NON per tutti, NON per lui, NON necessariamente per chi  DOPO 35 ANNI, non può ancora SAPERE IL NOME DI CHI HA SPARATO A SUO PADRE.

 

Meditiamo, gente, meditiamo…