La processione di San Carlo

La notizia di oggi è questa:

“Nonostante l’approvazione del nuovo decreto da parte del premier Giuseppe Conte che ha sancito il prolungamento del lockdown e delle misure restrittive fino al 3 maggio, la gente continua a violare la quarantena. E’ il caso di San Marco in Lamis, paese in provincia di Foggia, dove, in occasione del Venerdì Santo, c’è stata una vera e propria processione che ha coinvolto tutti gli abitanti del posto che si sono recati per assistere all’evento religioso. Più di 200 persone che sono state protagoniste di un atto folle tanto da spingere la procura di Foggia ad aprire un’inchiesta”.

https://www.spazionapoli.it/2020/04/11/coronavirus-san-marco-processione/

Ho sentito la notizia di sfuggita al TG stamattina e ho sperato di aver capito male. Quindi ho cercato su Internet sperando di non trovare quello che temevo.  E invece no. Le cose sono andate proprio come avevo capito…

Capisco il panico, comprendo le preoccupazioni e soprattutto rispetto la religiosità di chi chiede aiuto nell’alto dei cieli, esattamente come ammiro la forza spirituale di Papa Francesco quando prega per noi tutti in una Piazza S.Pietro vuota e svolge una Via Crucis solitaria.

Per carità, l’intento era nobile… Ma creare un simile assembramento, visti il distanziamento sociale e la reclusione forzata che il governo ci impone da un mese, mi sembra follia…

Eppure ci siamo già passati….Tutti abbiamo letto (con maggiore o minore entusiasmo…) almeno una volta nella vita “I  Promessi Sposi” di Manzoni, che ci parlano dettagliatamente della diffusione della peste del 1630 nel Milanese. Sappiamo quindi che abbiamo già pagato per scelleraggini del genere. Perché dobbiamo commettere gli stessi errori, facendo sì che 400 anni siano passati invano?

Mi limiterò, quindi, a fare propaganda culturale, pubblicando un estratto del romanzo manzoniana, quello che parla della Processione di San Carlo.

Processione di San Carlo

Processione di San Carlo

 

“Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che potè il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo.

Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facessero rimostranza nè opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo eran circa cinquecento. Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. (…).

Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.

Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, nè altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto,” dice uno scrittore contemporaneo,  “l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sè. Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento (…)”.

(Manzoni, Promessi Sposi, cap. 32).

Meditiamo, gente, meditiamo…

 

(testo e immagine tratti da wikisouce)