Il giorno della civetta

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Il giorno della civetta è un romanzo di Leonardo Sciascia, terminato nel 1960 e pubblicato per la prima volta nel 1961 dalla casa editrice Einaudi;  trae spunto dall’omicidio di Accursio Miraglia, un sindacalista comunista, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ad opera della mafia di Cosa Nostra.

Salvatore Colasberna, presidente di una piccola impresa edilizia chiamata Santa Fara, viene ucciso nella piazza Garibaldi, mentre sale sul pullman per Palermo. All’arrivo dei carabinieri, i passeggeri si allontanano alla chetichella, l’autobus resta vuoto e rimangono soltanto l’autista e il bigliettaio, che comunque di fronte alla divisa non riconoscono il morto e non si ricordano chi fossero i passeggeri. Il venditore di panelle, rimasto a terra al momento del delitto, è scomparso. Un carabiniere lo trova all’ingresso della scuola elementare, dove come al solito vende i suoi prodotti, e lo accompagna dal maresciallo Arturo Ferlisi. Ma neanche lui non sa nulla e, anzi, dice di non essersi nemmeno accorto dello sparo. Dopo due ore di interrogatorio il panellaro ricorda che, all’angolo tra via Cavour e piazza Garibaldi, verso le sei, ha sentito due spari provenire da un sacco di carbone situato vicino al cantone della chiesa. Le indagini vengono affidate al capitano Bellodi, comandante della compagnia di C., emiliano di Parma, ex partigiano, destinato a diventare avvocato, ma rimasto in servizio nell’arma in nome di alti ideali, non condividendo, peraltro, il clima di omertà che caratterizza la Sicilia e i suoi abitanti. Intanto, in un bar di Roma, un politico chiede ad un onorevole del suo partito (che si intuisce essere la Democrazia Cristiana) di far trasferire Bellodi, a causa dei problemi che sta creando, designando l’omicidio di Colasberna come omicidio mafioso. Bellodi intanto interroga un proprio confidente, doppiogiochista noto alla mafia: Calogero Dibella detto Parrinieddu. Il capitano ascoltando le menzogne che l’informatore riferisce, riesce comunque, con quelle sue gentili maniere da “continentale”, a sapere il nome di Rosario Pizzuco, il possibile mandante. Il brigadiere riceve il nome del presunto omicida, Diego Marchica detto Zicchinetta, dalla moglie di Paolo Nicolosi, un potatore scomparso e certamente ucciso per aver riconosciuto l’assassino, viste le coincidenze che accompagnano la sua scomparsa. Bellodi scopre nel fascicolo investigativo del Marchica che è un noto sicario, processato e condannato per molti reati, ma scagionato per altrettanti, causa insufficienza di prove. Nota inoltre, una fotografia che lo ritrae insieme con don Calogero Guicciardo e all’onorevole Livigni. Nel frattempo Parrinieddu viene assassinato e Bellodi ottiene, grazie ad un’inquietante testimonianza scritta prima di morire, che Marchica, Pizzuco e il padrino don Mariano Arena, vengano fermati, ma l’interrogatorio si risolverà in un nulla di fatto. Nell’incontro con Bellodi, Sciascia fa pronunciare a don Mariano la frase contenente l’espressione idiomatica “quaquaraquà“, destinata a divenire celeberrima e collegata nella cultura popolare al mondo mafioso. Bellodi, che intanto era rimasto a Parma, dopo aver preso una licenza di un mese, legge sui giornali spediti da un carabiniere dalla Sicilia, che il castello probatorio è stato smantellato grazie ad un alibi di ferro costruito da rispettosissimi personaggi per il Marchica, opera, naturalmente, di uomini politici interessati a tutelare la propria posizione.I giornali fanno molto clamore e pubblicano le foto di Arena insieme al ministro Mancuso; questo dimostra le persone vicine che lo sostengono. Il fatto porta a un dibattito in Parlamento al quale partecipano anche due anonimi mafiosi e alcuni parlamentari. Anche il capitano Bellodi è presente assieme ad un compagno. L’omicidio del Nicolosi viene attribuito all’amante della moglie e don Mariano viene scarcerato.

Il romanzo- brevissimo ma intenso nel seguito delle vicende-  si chiude con i pensieri di Bellodi:

« […] si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. «Al diavolo la Sicilia, al diavolo tutto». Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve, silenziosa, deserta. “In Sicilia le nevicate sono rare” pensò: e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e che ci sarebbe tornato. «Mi ci romperò la testa» disse a voce alta. »


Il giorno della civetta
 è anche un film del 1968 diretto da Damiano Damiani, interpretato da Franco Nero e Claudia Cardinale. Non ho avuto, però, mai occasione di vederlo…

(Liberamente tratto da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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