La casa di Matrjona

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Si tratta di un breve romanzo (o lungo racconto, come si dice in questi casi…)  scritto da Aleksandr Solženicyn,  che narra l’inizio di una nuova vita dopo la scarcerazione.

L’io narrante, che nel corso del racconto viene chiamato semplicemente Ignatič, nell’estate del 1953 (dunque poco dopo la morte di Stalin) torna in Russia dopo dieci anni, trascorsi  tra campo di concentramento e confino (proprio come aveva fatto Solženicyn stesso). Giunto nel villaggio di Tal’novo come professore di matematica e accompagnato da una donna del posto, cerca un’isba dove stare a pigione e si ferma da Matrjona (un nome della Russia antica), una donna sulla sessantina. La sua “‘isba” era composta di varie parti, tra cui una dipendenza, unite sotto un unico tetto: era una costruzione antica e solida, fatta per una grossa famiglia. Ora era malridotta e ospitava solo Matrjona, oltre a un gatto zoppo, i ficus, i topi, gli scarafaggi  e una capra.
Ignatič impara pian piano a familiarizzare con la donna;  nota le molte incombenze che impegnano le giornate di Matrjona, che svolge le faccende di casa, cura l’orto polveroso e sterile, si occupa delle interminabili pratiche per ottenere la pensione, compie estenuanti viaggi per cercare l’erba per la capra, e raccogliere la torba per l’inverno…
Quando finalmente ottiene la pensione, si sistema un po’ meglio, si cuce duecento rubli nella fodera del cappotto per i funerali e diventa più tranquilla e allegra. Le sue tre sorelle, che prima non si erano mai fatte vedere, forse per paura che Matrjona chiedesse loro aiuto, ora vanno anche a trovarla.

Gradatamente il narratore (e il lettore con lui…) viene a conoscere la storia di Matrjona: sposatasi prima della rivoluzione, aveva avuto sei figli, ma tutti erano morti molto piccoli; aveva poi adottato la nipote Kira, figlia di Faddej, che si era maritata da poco. Aveva stabilito che a lei avrebbe lasciato in eredità la dipendenza. Dell’isba non aveva detto niente, ma era evidente che le sorelle ci contavano.

Un giorno Ignatič, al ritorno da scuola, conosce Faddej, un vecchio alto, nero, quasi cieco e dall’aria ostinata. Matrjona la sera gli racconta, turbata, di essere stata in procinto di sposare Faddej; ma  questi era dovuto andare in guerra e per tre anni non aveva più dato notizie. Allora lei ne aveva sposato il fratello minore, Efim, ed era venuta ad abitare in quell’isba. Quando Faddej, che era stato prigioniero in Ungheria, ritornò, minacciò con la sua ascia di ammazzarli entrambi; infine volle sposare una donna che si chiamasse anche lei Matrjona, ma la trattò sempre con durezza.

Una bella storia, con un’icastica descrizione di un mondo e di un modo di vivere che noi “eurocentrici” conosciamo pochissimo.

(Liberamente tratto da culturacattolica.it)

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